Alice Romano

Distruzione e creazione, leghe e legami indissolubili

Pittrice di formazione, con una solida base umanistica e storico-artistica, Alice Romano si definisce un’esecutrice in grado di interpretare le potenzialità dei materiali, favorendone la natura in divenire. Alice crea un fare artistico dove è la materia a cambiare forma, grazie allo strumento dell’energia, diventando così iniziatrice di un’arte dinamica, con esiti sempre diversi, che ci riporta a sperimentazioni più antiche che ruotano intorno al perno del fuoco.

Alice Romano con The Beginning and the End, or Knockin’ on Heaven’s Door, da The Living Flame Series

PRESENTAZIONE

-Allora… raccontaci un po’ da dove vieni, chi sei, quanti anni hai?

Sono Alice Romano, ho 26 anni e sono originaria delle Marche, di San Benedetto del Tronto, una città marittima della costa adriatica. Lavoro principalmente a Milano, dopo aver concluso lo scorso anno la specialistica di pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera.

-Di cosa ti occupi?

Attualmente ho uno studio in Via del Progresso, in zona Maggiolina, dove porto avanti la mia ricerca artistica intrapresa negli ultimi due anni.
Lo scorso anno ho fondato insieme a soci una startup tech, “The Carnival Society” (TCS Lab Srl) in cui ricopro il ruolo di Art Director e Social Media Manager. Con la startup offriamo servizi digitali per le imprese italiane, dall’artigianato all’alimentare, dalla meccanica alla moda. Lavoriamo con blockchain e intelligenze artificiali per tutelare e valorizzare il Made in Italy, portando maggiore efficienza alla catena distributiva e produttiva italiana.

Corrispondenze, da Armillaria Project, 2022. Parco Lambro, Milano

INTERESSI

-Ti piace la musica? Hai un cantante, gruppo preferito?

Ovviamente mi piace la musica, ne fruisco come forma di meditazione.

Difficilescegliere un cantante o gruppo preferito: vario molto nei generi secondo il mood del momento. Ci sono giorni di cantautorato italiano anni ‘60/‘70 (per intenderci De André, Mina, De Gregori, Battisti, Battiato). Altri di Tame Impala, un progetto musicale che nasconde un solista di nome Kevin Parker che sembra suonare per cinque persone, pazzesco. Altri giorni ancora mi fanno compagnia Meredith Monk, i Pink Floyd, i Queen; a volte serve più grinta e preferisco il
post-punk degli Idles. Stimo Caparezza e i suoi testi sono sempre illuminanti.

I Cypress Hill mi hanno cresciuta, insieme alla Golden Age dell’Hip Hop statunitense e non passa molto senza che li
riascolti. Mi rilassa la musica mongola tradizionale, il throat singing di Batzoring Vaanching, come anche la musica classica. In questa lista non posso tralasciare l’album Tea for the Tillerman di Cat Stevens, ricordo le domeniche mattine con Wild World che risuonava per tutta casa. Potrei non arrivare più a una fine…

-Un film che secondo te tutti dovrebbero vedere?

Drive di Nicolas Winding Refn. Le luci di Refn sono uniche, come le composizioni simmetriche e i colori saturi, per non parlare delle atmosfere vibranti. Le sue narrative sono audaci e controverse, ed esplorano temi oscuri dell’uomo in un percorso introspettivo da violenza e vendetta, ad una sorta di redenzione.
Drive comunica con tutti i media. La fotografia crea un’atmosfera onirica in una sensazione di isolamento emotivo tra i personaggi e il mondo che li circonda. Le luci drammatiche danno origine a tensione costante, con una qualità pittorica mistica. Le colonne sonore non fungono solo da sfondo al film, ma sono parte integrante della narrazione e ne influenzano profondamente la percezione. La narrativa minimalista è simbolica, come la giacca scorpion di Ryan Gosling, citazione alla favola della rana e dello scorpione: la rana si impegna a trasportare lo scorpione attraverso il fiume, che però la punge rispondendo con una frase che suona come una giustificazione: “è la mia natura”; entrambi affogano. Nella narrazione di Refn, il pilota è la rana: trasporta i criminali, gli scorpioni, ma viene inevitabilmente trascinato nel loro mondo distruttivo, punto esattamente come la rana.

Il tema dell’amore in Drive è sottile, teso, è l’elemento centrale di tutto il film, ma mai esplicito. In questo film gli sguardi hanno più importanza delle parole, la comunicazione dei due protagonisti è non verbale. L’ elemento del sacrificio è presente in tutte le sue sfaccettature. Il pilota butterebbe via la sua vita per viverne una nuova con la partner, ma in una
realtà cruda deve mettere in gioco tutta la sua violenza per contrastare quella del mondo esterno, in una dinamica di autosabotaggio: si mostrerà violento agli occhi dell’amata, allontanandola da sé. Lui, pur di proteggerla, preferisce perderla assicurandosi di salvarla. Drive è un’opera d’arte.

Armillaria Project, 2023. Palazzo Meravigli, Milano

-Qual è la forma d’arte che preferisci? (da andare a vedere/ a cui assistere: fotografia, pittura, scultura, performance, ecc..) C’è un artista contemporaneo che consideri assoluto o che sia una fonte d’ispirazione?

La mia forma d’arte preferita, anche perché veicolata su più fronti, è rappresentata dai videogiochi. Nel cinema lo spettatore si limita a guardare, ma nel videogioco si immerge e diventa protagonista di una storia “oltre la realtà”, situazione che l’arte ha provato a ricreare per secoli, per “astrarre dalla vita”, come ci insegna Achille Bonito Oliva. Citare artisti contemporanei che ammiro sarebbe riduttivo, perciò menziono una grande fonte d’ispirazione, Hidetaka Miyazaki, creatore dei Souls, e che ha tratto ispirazione da artisti dello spessore di Miura.

-C’è un momento della giornata che ti piace particolarmente?

L’esecuzione. Il momento in cui dò atto a ciò che ho in testa, a prescindere dall’azione che sto facendo. Mi reputo
un’esecutrice, con l’ossessione di “mettere i puntini sulle i“.

Come on, honey, I’ll show you a little piece of heaven (day), da Armillaria Project, 2023. Ascoli Piceno

LAVORO

-Come nasce il tuo interesse per la ricerca artistica?

Credo di avere interesse per l’arte da quando sono al mondo. Da piccola doravo disegnare, spesso creavo quei motivi a zig zag colorando i quadretti delle pagine, solo per vivere la sensazione di completare un’intera pagina, colorando quadratini uno a uno, con una scala tonale completa. Un mandala? Un atto meditativo? Un espediente per completare qualcosa? Non saprei, ma penso di averne fatti decine e decine.
Poi verso i dieci anni chiesi con insistenza la collana Manga & Anime e da lì imparai a disegnare l’anatomia, i visi, le espressioni. Ho poi imparato a dipingere nella sezione Arti Figurative del Liceo Artistico, ho coltivato la tecnica ed ero molto brava a riprodurre fedelmente qualcosa.

Dipinsi realistico fino al primo anno di triennio all’Accademia di Napoli, finché non mi scontrai con il mio primo professore di Pittura, un ex allievo di Luciano Fabro, il quale professore mi fece capire che tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento era un virtuosismo, che ero in grado sì di riprodurre qualcosa “fotograficamente” ma senza margine di evoluzione, in una costante reiterazione della tecnica. Così, un po’ per imposizione, un po’ per uscire dalla comfort zone appesi i pennelli al chiodo e iniziai a sperimentare con i materiali. I primi due anni non conclusi nulla, ero disorientata e non trovavo una direzione.

La successiva ricerca sui materiali compì una svolta concettuale, anche se dovuta per lo più all’imprinting subito dal professore: realizzai che cucire un significato ad un materiale era principalmente una forzatura, un filosofeggiare costruito. Spesso facciamo l’errore di creare e successivamente incollare all’opera una zavorra concettuale su misura, come se fosse una lingua che abbiamo inventato noi, ma non comprensibile dagli altri senza il nostro ausilio. Deve essere la materia a parlare per noi.
Una volta trasferita a Milano, iniziai a sperimentare con i metalli e imparai una lezione importante che mi ripeto tutt’ora: i materiali non esistono alla maniera degli oggetti, non sono entità statiche, ma sostanze in divenire, che persistono superando le destinazioni formali che vorremmo assegnare loro. Il produrre diventa un processo di corrispondenza, il “tirare fuori” o dare realizzazione al potenziale immanente di un elemento, in relazione con una realtà che muta progressivamente sotto i nostri occhi. La materia rivela una vita propria legata alle sue proprietà intrinseche. Ed alcune di queste connessioni mi hanno condotto al rame, i cui legami permettono giochi pittorici attraverso la stimolazione del metallo; induco il cambiamento attraverso l’energia, attraverso il fuoco e, a differenza del fare pittorico, è proprio il materiale che cambia drasticamente.

Come on, honey, I’ll show you a little piece of heaven (night), da Armillaria Project, 2023. Ascoli Piceno

-Da dove ti è venuta l’idea e come ci sei arrivata?

I risultati di questa corrispondenza con il metallo hanno tracciato una via chiara in cui la mia azione plasmava un ecosistema immaginifico di un mondo mutato, in continua evoluzione per l’ossidazione attiva e mai stabilizzata, dove la distruzione e la creazione fossero interconnesse. Il rame assumeva vita propria, diffondendosi tra spazi e oggetti, trasformando e invadendo.
Una sorta di mutazione organica e batterica che gremisce lo spazio interno o esterno. Così è nata “Armillaria Project”, dove la forma scultorea anziché essere messa su un piedistallo, prende essa stessa il proprio spazio, al pari di un’ entità che si propaga “anarchicamente” all’esterno e all’interno dell’ambiente, invadendo e ricoprendo come un micelio. Dall’aspetto “invadente” dell’opera, la ricerca ha preso una piega inaspettata anche per me. Durante questi due anni di sperimentazioni, uno dei miei obiettivi era imparare a controllare la fiamma. All’inizio mi percepivo come un suo mezzo: attraverso di me la fiamma faceva del materiale ciò che voleva. Ma studiando il suo processo ho capito come indirizzarla, come gestirla. E il destino vuole che sia riapprodata alla forma bidimensionale del quadro. Ho iniziato con molta eccitazione questo ciclo di lavori, in cui l’ossidazione non è più un elemento casuale nel materiale ma diventa contenitore di una forma.

-Un’emozione che sapresti nominare mentre lavori?

Impazienza.

Angelus Novus V, da The Living Flame Series, 2024

-Che cosa sentivi necessario: fare qualcosa di diverso, oppure andare oltre? Avevi un’idea chiara di quello che bisognava fare?

Sentivo necessario padroneggiare l’azione. Non bastava più il processo ma avevo bisogno di un’idea che mi rappresentasse completamente. L’intento è di scoprire esiti con il mio stesso lavoro, per cui non si possono trovare istruzioni.

-Prima di cominciare a lavorare hai già chiara l’idea di come sarà il tuo lavoro? Oppure è quando cominci che hai un’idea di quello che farai?

Per quanto riguarda l’aspetto installativo del materiale, lascio che le forme prendano il sopravvento.
Si tratta, infatti, di opere site-specific, ovvero che si adattano al contesto in cui devono convivere.
D’altro canto, sotto il lato pittorico, l’idea risulta chiarissima, poiché prima di procedere devo sapere esattamente dove porre la fiamma e far scaturire il colore della lega.

-Che ruolo svolgono i titoli per te? E quando li assegni? Di solito i titoli vengono prima o dopo che hai finito il tuo lavoro?

I titoli hanno una grande importanza nel mio lavoro. I quadri sono sempre legati ai loro titoli, ne racchiudono il concetto, spesso e volentieri ne sono l’origine. Tutto quello che lascia un segno indelebile diventa inevitabilmente un nuovo lavoro.

-Quale sarebbe il loro significato?

Tutti i miei lavori nascono dalle influenze di gaming, anime e alter-ego che creo e che vivono dentro di me, che fanno parte del mio universo. Paladine, valchirie, guerriere che emanano forza, potenza, sacralità fanno tutte parte di un’incarnazione di un immaginario fantastico che vivo quotidianamente.

-Quand’è che senti che un lavoro è finito?

Il lavoro ha una tempistica precisa. Quando l’ultima ossidazione compone l’ultimo pezzo della composizione, il lavoro è concluso.

Amaterasu, da The Living Flame Series, 2024

-Ti capita di doverti fermare mentre stai lavorando, perché non hai in casa il tipo di pezzo o di materiale che ti serve, e di dover aspettare finché non lo trovi?

Il mio produrre è fatto soprattutto di pause, proprio per il rifornimento del materiale. Non è come comprare una tela o un colore: prima di iniziare un nuovo ciclo di opere è necessario un tempo refrattario che comprende l’acquisto di materiale all’ingrosso, con tanto di lavorazione e rifiniture. Dopodiché si può procedere con l’operare.

-Quale lavoro secondo te funziona di più rispetto agli altri?

Sono molto entusiasta degli ultimi quadri. L’aspetto installativo riflette un perfetto connubio con la natura ed il contesto esterno. Si crea un senso di “post-”, circoscritto però a determinate situazioni. I quadri sono più in dialogo con il presente che vivo, hanno quel quid che racchiude il mio spirito.

-Raccontaci come nasce un tuo lavoro. Parti da un’idea, una sensazione o che altro?

Nasce principalmente dall’aura che voglio dare al lavoro. In primis c’è una sensazione.
Furia, potenza, violenza o sacralità, parto sempre dall’anima che avrà il quadro, che per forza di cose riflette lo spirito che più mi rappresenta in quel momento.

Both of you, dance like you want to win, da The Living Flame Series, 2024

-Hai fatto un percorso all’accademia di Belle Arti / in ambito artistico; come descriveresti questo viaggio, come ti sei trovata? Immaginiamo che questo percorso ti abbia lasciato qualcosa, degli strumenti di lavoro che utilizzi o delle influenze particolari.

A volte facciamo le cose perché sappiamo farle, ma ci piace davvero ciò che stiamo facendo? In questi anni a Brera ho scoperto che diventare Efesto ha tirato fuori un lato di me che ancora non conoscevo. Ho in mano un’arma in grado di distruggere, ma al contempo ciò che faccio è creare. È qualcosa di primordiale, di potente.
Il percorso che ho intrapreso a Brera ruota intorno ad una figura chiave, il pittore Marco Cingolani, che mi ha permesso di capire questo sistema, senza vivere nelle illusioni di qualcosa che è molto più materiale di ciò che sembra. Da un lato Cingolani disillude, dall’altro però, vede qualcosa negli altri che magari nemmeno loro vedono in se stessi. Forse, la lezione più importante che mi ha insegnato è che deve spiccare una scintilla iniziale, un qualcosa di istintivo e di vero nel produrre. Da quello poi si costruisce il resto.

-Qual è il tuo lavoro che finora è stato più apprezzato? E quale quello che tu preferisci?

Probabilmente il lavoro che ho realizzato per la residenza al Parco Lambro di Milano, in collaborazione con Non Riservato di Rossana Ciocca e Vittorio Corsini, ovvero Corrispondenze 2022. Il lavoro presenta un’invasione di rame dall’aspetto fungino, che ricopre una lunga cretta in un albero di Amarene. In quel lavoro il rame e l’albero si corrispondono, diventando, da due materiali distinti, una cosa sola. È un lavoro a cui sono molto legata, è stato il principio del concetto di “Armillaria Project” che ho poi riproposto a Milano, a Roma e sul ponte di Ascoli Piceno. Sicuramente è una strada che ripercorrerò in connubio con altri elementi.

Armillaria Project, 2023. Casa degli Artisti, Milano

INTERAZIONE CON IL MONDO ESTERNO

-I social sono ormai una piattaforma indispensabile per pubblicare i propri lavori ed essere conosciuti; tu come vivi questa dimensione, e soprattutto, quanto la reputi importante per ciò che fai?

I social sono un mezzo potentissimo. Al giorno d’oggi se ne può usufruire per mille scopi, sicuramente per noi possono essere alla pari di un portfolio fruibile a tutti, per presentare una selezione di ciò che facciamo. Si deve tener conto però che si pubblica ciò che si vuole mostrare; l’artificio, l’inganno, si potrebbe dire. Si può vivere tranquillamente senza, ma certamente se usati come un buon biglietto da visita, i social possono rivelarsi efficaci in un modo che sfrutta perennemente uno schermo.

-Sei stata a Milano, come ha influito su di te questa città? Il luogo in cui ti trovi ha un’influenza su di te e su ciò che produci?

Milano è così piccola e così piena di opportunità, vi accadono tante cose. Frequentando le stesse gallerie e gli stessi posti è facile incontrare persone interessanti con cui si inizia una chiacchierata e vi si finisce poi in collaborazione. Attualmente ho una casa e uno studio a Milano dove cerco di lavorare il più possibile, sia per l’immediatezza di organizzare studio visit, sia per la quantità di eventi e mostre che si susseguono periodicamente.

C’è anche però un altro lato della medaglia, quello per cui non mi sono trasferita definitivamente a Milano. La città tende a risucchiarti con tutto ciò che offre, e il rischio di distrazione è alto.
D’altronde io sono di San Benedetto del Tronto e abito in aperta campagna. Il verde è qualcosa di necessario nella mia vita, come l’aria che vi si respira. Il bosco e ciò che mi circonda e ha sicuramente influito nella mia direzione artistica, e ogni volta che torno a casa è come rigenerare le energie, che inevitabilmente Milano inghiotte.

Armillaria Project, 2023. Muciaccia Contemporary, Roma

-Quali sono i tuoi prossimi obiettivi e progetti?

Nei miei progetti futuri rientra il progredire della mia ricerca artistica e della startup, la quale avrà un ruolo importante nel mio futuro. L’obiettivo principale è divertirsi, facendo tutto ciò.

-Quali sono i progetti che non sei ancora riuscito a realizzare?

Non ci sono progetti ancora irrealizzati ma, piuttosto, un work in progress costante. Io credo, come penso molti altri, che essere artisti oggi è essere imprenditori. Ce lo hanno insegnato già gli statunitensi decenni e decenni fa: l’artista è un imprenditore con la sua azienda e il suo marchio di fabbrica. Scordiamoci degli scapigliati e dell’artista maledetto, oggi l’artista è un produttore molto inquadrato sui suoi progetti.

-Cosa significa per te essere artisti oggi?

Vedi sopra.

-Infine, ci indicheresti tre giovani artisti che stimi ed ammiri di Milano?

Ce ne sono diversi ma se dovessi sceglierne solo tre direi Jem Perucchini, Emilio Gola e Roberto
De Pinto.

Armillaria Project, 2023. Hangzhou, Cina

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