Francesco Feltri

Ricerche sul corpo

Francesco Feltri è un giovane artista che ha fatto della sua ricerca sul corpo il perno dei suoi lavori.

La corporalità si esprime sia attraverso le opere – tra gestualità, forme chiuse e aperte – sia in un approccio alla pittura che vede l’artista lavorare con il proprio corpo, ricoprendosi di colore.

PRESENTAZIONE

-Allora… raccontaci un po’ da dove vieni, chi sei, quanti anni hai?

-Sono Francesco, vengo da Piano Gentile, un paese vicino a Como, ho 21 anni. Frequento l’Accademia all’ultimo anno, faccio anche scout.

-Di cosa ti occupi?

-All’Accademia studio pittura e dipingo.

INTERESSI

-Ti piace la musica? Hai un cantante, gruppo preferito?

-Mi piace la musica tanto che quanto dipingo metto sempre le cuffiette. Al momento ascolto l’indie e il latino: il reggaeton mentre lavoro aiuta molto.

-Un film che secondo te tutti dovrebbero vedere?

-Un film che amo e che mi porto dietro dall’infanzia è “Galline in fuga” e poi anche “Il Grinch” per ambientazione, costumi e trama.

-Qual è la forma d’arte che preferisci? (da andare a vedere/ a cui assistere: fotografia, pittura, scultura, performance, ecc..) C’è un artista contemporaneo che consideri assoluto o che sia una fonte d’ispirazione?

-Le forme d’arte che preferisco oscillano, passo dalla pittura alla fotografia, scultura e incisione per avere una visione più a tutto tondo.

Mi piacciono diversi artisti contemporanei, non ce ce n’è uno assoluto: considero fenomenali Tracey Emin e Anish Kapoor. Poi, non sono più tanto contemporanei, ma amo i lavori di Rothko e Hans Bellmer.

-C’è un momento della giornata che ti piace particolarmente?

-La mattina sono più produttivo ma non mi piace, anche se d’estate la amo per il sole e la luce. In generale la sera mi piace, preferisco il tramonto, che secondo me batte l’alba perché è come se tutti i ricordi della giornata se ne andassero e si potesse ricominciare.

LAVORO

-Come nasce il tuo interesse per la ricerca artistica?

-Mio padre è architetto e mio nonno dipingeva, l’ambiente del disegno è sempre stato fondamentale per me fin dalle elementari.

Non c’è un momento preciso in cui nasce il mio interesse perché l’aspetto creativo, che non rispetta i canoni tradizionali, mi ha sempre coinvolto e l’arte è la forma perfetta.

-Da dove ti è venuta l’idea e come ci sei arrivato?

-L’Accademia, da questo punto di vista, ti sprona molto a ragionare su chi sei e cosa ti interessa. Io ho sempre avuto un rapporto conflittuale con il mio corpo rispetto all’ambiente circostante. Riuscire di nuovo ad approcciarlo è stato come una seduta dallo psicologo, una meditazione: attraverso il corpo io dipingo e dipingo corpi.

-Un’emozione che sapresti nominare mentre lavori?

-Rabbia, frustrazione. Io sono molto istintivo, vorrei che le idee che ho in testa venissero realizzate subito, solo che non funziona così in pittura e allora lascio i lavori appesi settimane, poi magari ci ripasso e faccio un segno e così via senza mai essere soddisfatto.

-Che cosa sentivi necessario: fare qualcosa di diverso, oppure andare oltre? Avevi un’idea chiara di quello che bisognava fare?

-Venendo dal liceo artistico, dove ti insegnano a guardare-copiare-fare senza mettere del tuo, volevo produrre qualcosa che piacesse a me, mi rispecchiasse e fosse più personale. Quindi sì: andare oltre, più a fondo.

-Prima di cominciare a lavorare hai già chiara l’idea di come sarà il tuo lavoro? Oppure è quando cominci che hai un’idea di quello che farai?

-Tendenzialmente mi ricopro di pittura, mi sporco le mani e inizio a fare dei segni sulla tela e da lì poi parto.

In base ai segni che trovo o a un’idea che ho già inizio, ma non è mai il risultato finale. Viene sommerso da strati di colore, collage… lavorando e andandoci sopra si sviluppa: ho un’idea di base che non viene mai rispettata.

-Che ruolo svolgono i titoli per te? E quando li assegni? Di solito i titoli vengono prima o dopo che hai finito il tuo lavoro?

-Quelle rare volte che metto i titoli vengono dopo, la maggior parte delle volte per esigenza o per il contesto. Non mi piace dare titoli perché danno una chiave di lettura e a me piace che i miei lavori siano liberi di interpretazione: per esempio le mie opere hanno una visione privilegiata ma amo quando vengono girati e appesi da un altro punto di vista.

Per questo uso forme chiuse ma non definite del tutto, per dare la possibilità all’altro di vedere qualcosa. Quando do i titoli, però, ci penso tanto e spesso li do apposta che non c’entrino nulla: una volta ho fatto tutto un lavoro sulla stratificazione e il retro e… l’ho chiamato “Albero”.

-Quand’è che senti che un lavoro è finito?

-Un po’ mai, dipende molto dalle volte. Ci sono volte in sui mi stacco e dico che non lo toccherò più, poi però ci ripasso, non mi sembra più finito e continuo a ritoccarlo.

Non avendo molto spazio le mie opere le arrotolo quindi finiscono dimenticate, nascoste: in un un mondo ideale avrei uno spazio enorme con tutto appeso per poterci passare sopra ogni volta che voglio.

-Ti capita di doverti fermare mentre stai lavorando, perché non hai in casa il tipo di pezzo o di materiale che ti serve, e di dover aspettare finché non lo trovi?

-I primi anni sì, adesso mi arrangio con tutto il materiale che c’è e mi piace utilizzare tutti quelli che ho senza scartarli, riassemblarli fra di loro e dargli vita.

-Quale lavoro secondo te funziona di più rispetto agli altri?

-Non lo so, umilmente e onestamente è inutile cercare una risposta inventata. Ogni lavoro mi gasa e poi sono tutte fasi della vita e ci sono emotivamente legato.

-Raccontaci come nasce un tuo lavoro. Parti da un’idea, una sensazione o che altro?

-Tra sensazione e idee che poi cambiano, non faccio mai i bozzetti perchè si perde l’importanza del lavoro, è come copiare qualcosa che ho già fatto.

Ho degli schizzi in giro per darmi l’idea di un gesto, di una torsione di un corpo, di una mano, che riguardo per darmi intuizioni ma nel momento in cui lavoro si stravolgono, vengono costruiti, elaborati e stratificati.

-Hai fatto un percorso all’accademia di Belle Arti / in ambito artistico; come descriveresti questo viaggio, come ti sei trovato? Immaginiamo che questo percorso ti abbia lasciato qualcosa, degli strumenti di lavoro che utilizzi o delle influenze particolari.

-L’autocritica, soprattutto quando un lavoro funziona e no ma anche il ragionare su me stesso, su chi sono.

Più che a livello tecnico l’Accademia mi ha lasciato la capacità di pensiero, di attenzione ai dettagli e al mondo esterno che mi circonda: io, ad esempio, dal primo anno noto le incrostazioni e le crepe sui muri che osservo e fotografo.

INTERAZIONE CON IL MONDO ESTERNO

-I social sono ormai una piattaforma indispensabile per pubblicare i propri lavori ed essere conosciuti; tu come vivi questa dimensione, e soprattutto, quanto la reputi importante per ciò che fai?

-Ho un rapporto estremamente conflittuale con i social. Secondo me è la morte dell’arte, io utilizzo instagram e banalmente il formato quadrato e la qualità delle immagini sono pessimi. A volte mi sembra un secondo lavoro starci dietro, mi sembra quasi più di dedicarmi alla fotografia per documentare piuttosto che al lavoro finito.

Poi posto perché sento che è un’ottima vetrina, è necessario ma è faticoso ed è un mondo competitivo, all’inizio il confronto con gli altri mi struggeva anche se ora la vivo come una costruzione.

-Sei stato a Milano, come ha influito su di te questa città? Il luogo in cui ti trovi ha un’influenza su di te e su ciò che produci?

-Io Milano non la vivo, finita l’Accademia torno a casa. Da quando la frequento, però, una cosa che ha influito è la frenesia e questo lo porto nel mio lavoro.

Lavoro tanto e continuamente ma a livello di soggetti e pittorico Milano non mi ha cambiato molto. Mi piace comunque fare i video e cogliere la città in movimento.

L’Accademia o il treno, mi piace mettermi con il taccuino e osservare la gente in viaggio, fare video, foto, disegnare.

-Quali sono i tuoi prossimi obbiettivi e progetti?

-A livello artistico mi piacerebbe fare entro pochi anni una mostra personale. Per avere un momento dedicato a te, una sensazione diversa dalle collettive. Poi, non c’entra in ambito artistico, ma andare a vivere da solo, avere l’indipendenza.

-Cosa significa per te essere artisti oggi?

-Non voglio dare risposte che non sento mie, quindi non lo so. Io l’arte lo faccio per me e ormai è talmente varia che definire cosa significa essere artisti oggi non è possibile.

Essere creativi è l’unica cosa che mi viene in mente, ma non credo si limiti solo all’arte: il genio creativo deve essere di tutti.

-Infine, ci indicheresti tre giovani artisti che stimi ed ammiri di Milano?

-Molti più di tre, molti sono i miei compagni di corso e la mia fonte di ispirazione: comunque direi Gioele Staltari, Ambra Gheller e Ileana Minotti.

Ringraziamo Francesco per aver risposto alle nostre domande, continuate a seguirlo sul suo profilo Instagram!

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