Letizia Bertaggia

I colori della psiche

Letizia Bertaggia, giovane artista dell’Accademia di Brera, ha fatto delle sue opere il mezzo principale attraverso cui esprimere ciò che conosce. La sua arte nasce dalla ricerca e dalla documentazione, diventando poi segno sulle grandi tele. I lavori che più colpiscono hanno un profondo legame con i disturbi psichiatrici e la malattia, sensazioni che prendono forma sui corpi rappresentati con colori, forme e dettagli.

PRESENTAZIONE

-Allora… raccontaci un po’ da dove vieni, chi sei, quanti anni hai?

Io ho 22 anni. Io sono una ragazza cresciuta in una biculturalità diciamo, mia mamma, viene dalla Repubblica Dominicana e mio padre invece è italiano. Però sono cresciuta qui a Milano, cioè qui nei pressi di Milano. Studio pittura, qui all’Accademia di Belle Arti.

"Dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fiori", 2022
“Dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fiori”, 2022

-Di cosa ti occupi?

Mi occupo di pittura e a volte di fotografia o di entrambe. Faccio fatica a dire “mi occupo di arte”, perché mi sento più un’artigiana. Poi cerco di parlare di dati, dati psichiatrici, piuttosto che studio di subculture musicali e via dicendo e cerco di creare delle immagini partendo da questa raccolta di informazioni che recupero leggendo, piuttosto che guardando film.

-Come mai ti consideri più un’artigiana che un’artista?

Perché per me arte vuol dire quando tu contribuisci in un certo senso a un dialogo. Io non so se questa cosa funziona col mio lavoro, io dico quello che penso. Se facessi arte non saprei di starla facendo. Quando contribuisci a qualcosa è arte, io non so se sono a quel livello lì, forse lo sarò un giorno, forse non lo sarò mai, ma non mi pongo il problema. 

INTERESSI

-Ti piace la musica? Hai un cantante, gruppo preferito?

La musica per me ha lo stesso valore dell’arte nella mia vita. Non posso stare senza movimento, non è contemplato. Amo molto le canzoni, un po’ “blu”, malinconiche. Il mio cantante preferito si chiama Elliot Smith, è un cantautore grunge folk degli anni ‘90. Amo molto anche tipo Joy Division, punk, post-punk. Un genere un po’ oscuro che influenza anche il mio lavoro perché sono subculture, che prendono tanti aspetti della vita, che sia la moda, che sia la musica, la letteratura, e prende anche il mio lavoro.

-Un film che secondo te tutti dovrebbero vedere?

Sì, si chiama Mania Days, o Touched with Fire, di Paul Dalio. È un film abbastanza di nicchia e parla del disturbo bipolare, lo fa in maniera molto attenta, perché lo stesso regista è bipolare e secondo me se una persona vede questo film, capisce cosa vuol dire essere bipolare; quindi, è molto bello e c’entra molto col mio lavoro.

"Depressed people have to paint a smile", 2022
“Depressed people have to paint a smile”, 2022

-Quindi l’aver visto questo film ha influenzato quello che fai?

Sì, mostra che quando subisci qualcosa nella tua vita e cerchi di guarire hai bisogno del giusto distacco per parlarne, questo film è esattamente questo.

-Qual è la forma d’arte che preferisci? (da andare a vedere/ a cui assistere: fotografia, pittura, scultura, performance, ecc..)

In realtà non ho una preferenza, secondo me ogni media ha il suo valore, dipende chi lo usa. Se il lavoro che c’è dietro ha valore, una performance vale quanto una buona installazione e via dicendo.

C’è un artista contemporaneo che consideri assoluto o che sia una fonte d’ispirazione?

Si chiama Michaël Borremans, è un pittore belga figurativo contemporaneo. Essere figurativi e contemporanei non è una cosa così scontata, ma lui lo fa in una maniera innovativa.

-Come lo hai conosciuto?

Grazie a un mio professore del liceo che, vedendo che amavo molto il figurativo, mi disse di guardare che cosa girasse in quel momento, di non restare aggrappata al passato.

"Depressed people have to paint a smile", 2022
“Depressed people have to paint a smile”, 2022

-C’è un momento della giornata che ti piace particolarmente?

La sera e la notte. Non dovrebbe essere così, ma io dipingo di più, sono anche più rilassata e attiva, sono più nel mio. Vorrei tanto essere una persona mattiniera e avere una routine semplice.

LAVORO

-Come nasce il tuo interesse per la ricerca artistica?

Non so esattamente dire quando nasce. Mia nonna era una pittrice e io sono cresciuta con lei. Mio zio ha fatto Brera, quindi praticamente, io ero un po’ come la monaca di Monza, “devi fare questo”. Diciamo che c’è sempre stato, quindi non so dire un momento in cui è nato.

-Tua nonna materna o paterna?

Paterna, lei è di origini croate, per la guerra è venuta in Italia e ha fatto l’Accademia a Venezia. Lei però dipingeva molto in maniera accademica, faceva questi paesaggi molto alla Canaletto, invece io non li faccio. Alla fine, si è rassegnata perché lei voleva che io facessi paesaggi come lei, però dipingo ancora sul suo cavalletto.

"Girl, interrupted, ophelia", 2022
“Girl, interrupted, ophelia”, 2022

-Da dove ti è venuta l’idea e come ci sei arrivata?

Prima facevo dei quadri che erano meri esercizi di stile, io prendevo le immagini e le dipingevo così come le vedevo. Quando poi mi sono ammalata e ho iniziato a stare meglio, mi sono distaccata e i miei quadri sono diventati più, passami il termine, dark. Ho iniziato a parlare di cose più pesanti, più sanguinolente, tristi perché avevo la giusta distanza per parlarne.

-Quindi la tua arte è anche un modo per guarire?

No, non credo, è più un riportare la mia esperienza e poi lasciar fare allo spettatore.

-Un’emozione che sapresti nominare mentre lavori?

Tristemente la frustrazione, io sono molto frustrata, mentre dipingo sbraito e a volte mando tutto a quel paese. Però poi quando finisco penso che mi sono tolta un peso. Frustrazione ma poi anche soddisfazione.

"Girl, interrupted, happines pills", 2022
“Girl, interrupted, happines pills”, 2022

-Che cosa sentivi necessario: fare qualcosa di diverso, oppure andare oltre? Avevi un’idea chiara di quello bisognava fare? 

Io faccio un po’ per me stessa. È strano, perché molto spesso la gente mi scrive che i miei lavori hanno detto qualcosa che loro non riuscivano a dire. In realtà io non ambisco a tutto ciò, lo faccio e viene anche apprezzato, sono contenta che venga apprezzato, però non è il punto. Non cerco di rivoluzionare l’arte. Io sono talmente insicura di me, che se domani i miei i miei lavori finissero nel dimenticatoio, chissene frega.

-Prima di cominciare a lavorare hai già chiara l’idea di come sarà il lavoro? Oppure è quando cominci che hai un’idea di quello che farai?

Io progetto molto, prima parto dall’analisi, che è la raccolta delle fonti, leggo saggi, piuttosto che affidarmi alla letteratura. Ad esempio, il mio ultimo lavoro, su cui vorrei fare la tesi, è sull’inferno di Dante e quindi si va a toccare un colosso, bisogna essere pronti e avere gli strumenti, si parla di leggere la Divina Commedia decine di volte, leggere testi che la commentano, e via dicendo. Oppure per il mio lavoro precedente, che era sulla psichiatria, sul disturbo bipolare borderline, ho letto manuali di psichiatria, in particolare Kay Jamison, che è una psichiatra che soffre di bipolarismo. Poi inizio con una nuova fase, inizio a buttare giù le idee e inizio a fotografare modelli dal vivo e, alla fine, dipingo, cercando di aggiungerci qualcosa.

-Quindi l’idea è precedente all’inizio dell’opera?

Le idee io me le segno, ma poi si sviluppano, diventano una cosa diversa da quella che era.

"In God we trust", 2022
“In God we trust”, 2022

-Che ruolo svolgono i titoli per te? E quando li assegni? Di solito i titoli vengono prima o dopo che hai finito il tuo lavoro?

Io li assegno prima, perché devono, in un certo senso, spiegare che cosa si sta vedendo. A volte sono citazioni, che riguardando libri, film o persone. Per esempio, avevo fatto un progetto fotografico sul suicidio e avevo citato Virginia Woolf e la lettera che scrisse a suo marito “sono certa di stare impazzendo di nuovo”, e allora ho pensato che cadesse perfettamente a pennello.

Quale sarebbe il loro significato?

Attraverso le parole di altri, spiego il mio lavoro. 

-Quand’è che senti che il lavoro è finito?

Io ho avuto un professore al liceo che mi diceva che quando un lavoro è finito non è che puoi starci a girare in tondo. Cioè tu lo sai quando hai finito. Penso che un lavoro sia finito quando l’opera ha raggiunto l’apice della sua comunicabilità.

"cadder nel mezzo del bogliente stagno", 2024
“cadder nel mezzo del bogliente stagno”, 2024

-Ti capita di doverti fermare mentre stai lavorando, perché non hai in casa il tipo di pezzo o di materiale che ti serve, e di dover aspettare finché non trovi?

Io ho sempre un sacco di materiali, anche a causa di mio zio e mia nonna. Mio padre appena esce mi porta o una tela o dei colori, perché i miei mi sostengono molto. Io sono molto drogata di zuccheri, quando non ho la Coca Cola in casa, io mi devo fermare e dopo dipingere.

-Quale lavoro secondo te funziona di più rispetto agli altri?

Si chiama Girl, interrupted, bath tears, che vuol dire ragazza, interrotta, bagno di lacrime. È un lavoro che ho fatto legato alle malattie mentali, un dato letto durante le mie ricerche era che molte persone tentano il suicidio nella vasca da bagno. Questo dipinto, appunto, rappresenta una ragazza, una mia amica che ha sofferto di disturbo borderline e ha avuto istinti suicidi, in una vasca da bagno completamente rannicchiata e si vede proprio la pelle che fa male per i tagli. La pelle è verdastra-bluastra, come se fosse diciamo più morta che viva purtroppo. Secondo me quello è il dipinto che ha anche più colpito le persone.

-Raccontaci come nasce un tuo lavoro. Parti da un’idea, una sensazione o che altro?

Documentazione, secondo me da cosa nasce cosa, come si dice sempre. La fantasia nasce dall’intelligenza, nel senso che più uno sa, più uno può creare. Almeno io la vedo così. Quando si è adulti, perché quando si è bambini si è un turbinio di creatività, quando, invece, si è adulti bisogna divorare qualsiasi cosa.

"girl,interrupted, bath tears", 2022
“girl,interrupted, bath tears”, 2022

-Hai fatto un percorso all’accademia di Belle Arti; come descriveresti questo viaggio, come ti sei trovata? Immaginiamo che questo percorso ti abbia lasciato qualcosa, degli strumenti di lavoro che utilizzi o delle influenze particolari.

In realtà, sono più le persone che ho incontrato, che mi hanno lasciato qualcosa, come i miei amici. Il poco che sono cresciuta, l’ho fatto da sola perché sono molto individualista, solitaria, mi sono integrata poco. Ci sono i miei amici, che mi hanno sempre sistemata e sostenuta, però sento di non essere entrata proprio nel mood dell’accademia.

-Qual è il tuo lavoro che finora è stato più apprezzato? E quale quello che tu preferisci?

Il quadro di cui ho parlato prima, è anche quello che è stato più apprezzato. anche se in realtà non è così sanguinolento, a molti ha dato un po’ di stomaco. Il bagno è un posto bianco, un po’ asettico; quindi, a volte crea una visione un po’ distorta.

INTERAZIONE CON IL MONDO ESTERNO

-I social sono ormai una piattaforma indispensabile per pubblicare i propri lavori ed essere conosciuti; tu come vivi questa dimensione, e soprattutto, quanto la reputi importante per ciò che fai?

Io la vivo bene, io in realtà pubblico un sacco di meme. I miei lavori sono abbastanza tristi, ma io non sono una persona propriamente solo triste, ma anzi dico sempre cavolate. E allora io uso i social un po’ per quello, faccio vedere i miei lavori, però faccio anche vedere che io non sono solo quello. Non sono solo tristezza, ma sono anche divertimento. Non li ritengo fondamentali ma qualcosa che sta lì nella mia vita, che utilizzo ogni tanto.

"Li occhi avea di fiamme rote", 2023
“Li occhi avea di fiamme rote”, 2023

-Sei stata a Milano, come ha influito su di te questa città? Il luogo in cui ti trovi ha un’influenza su di te e su ciò che produci?

Milano a me piace molto, però, è un’altra cosa che è sempre stata lì. Dovrei spostarmi per sapere cosa mi ha dato veramente Milano, perché io non ho mai vissuto in un altro luogo, sono sempre stata nella mia casa.

-Quali sono i tuoi prossimi obbiettivi e progetti?

Vorrei fare una mostra legata all’inferno di Dante, che sto preparando per la laurea e, anche, laurearmi. Un domani mi piacerebbe insegnare perché vorrei parlare di arte ogni giorno della mia vita con persone diverse, l’ideale sarebbe al liceo o in Accademia.

-La mostra vorresti farla qui a Milano o in un altro posto?

Stavo pensando di farla nella mia città, Meda, che ha uno spazio espositivo. Per ora stavo pensando là per iniziare, per tastare un po’ il terreno, poi vedremo come andrà.

"là dove 'l collo a le spalle s'annoda", 2023
“là dove ‘l collo a le spalle s’annoda”, 2023

-Quali sono i progetti che non sei ancora riuscita a realizzare?

Ce ne sono un po’, nel senso che vorrei fare un lavoro che sia bello esteticamente e basta, che qualcuno dica “è bello”, perché la gente quando guarda i miei lavori mi dice che sono dipinti bene, però fa senso. Io vorrei fare qualcosa che leghi i costumi del 1700 all’estetica punk, come hanno fatto Vivian Westwood e Sofia Coppola, qualcosa del genere, però bisogna vedere come andrà.

-Cosa significa per te essere artisti oggi?

Per me significa dire qualcosa di nuovo in una conversazione, in una discussione. Questo non deve per forza essere qualcosa di artisticamente rilevante. Per esempio, Zerocalcare dal punto di vista del disegno, non è così innovativo, però dà una nuova visione di un discorso. La gente lo ascolta, lui ha qualcosa da dire. Alla fine, è una cosa banale, ma ritorna sempre, hai qualcosa da dire? da raccontare?

-Infine, ci indicheresti tre giovani artisti che stimi ed ammiri che frequentano/hanno frequentato l’Accademia di Brera?

Innanzitutto, il mio compare, Sebastiano D’Eugenio, poi ti cito Brando Grassi, che studia scultura, e poi Tommaso Colleoni.


Ringraziamo Letizia per aver risposto alle nostre domande, potete continuare a seguirlo sul suo profilo Instagram. Scopri altri artisti emergenti sulla nostra rivista Venticento Art Magazine.